Tornammo dal deserto il primo gennaio. Erano circa le 12.30 del mattino. Stanchi. Silenziosi. Distanti e vicini. E ci sedemmo su un marciapiede. Vicino a noi un grande cartello decorato con piastrelle, dove erano rappresentate scene popolari, indicava che eravamo appena usciti o stavamo appena entrando nel deserto. E noi avevamo appena varcato la porta ritornando dentro o fuori, non lo so.
Nel pomeriggio, dopo aver scambiato a Douz, in un cortile assolato circondato da bambini ed anziani, poi in una stanza di tappeti e the sfogliando il percorso del rientro a nord, saluti, immagini, pensieri, cordialità, senso profondo di rispetto, ospitalità, ci dirigemmo verso Gabes, destinazione intermedia prima di raggiungere Tunisi il giorno dopo.
Ci fermammo all’altezza di Kettana, per una sosta davanti al mare, un the verde, una fricassè, e che poi li il bicchiere di the te lo prendi e te lo porti a spasso con te in spiaggia e questo è un piacere per pochi.
La spiaggia era verde quel giorno. Verde, si, ma più del the alla menta. Il ritiro della marea lasciava sotto il sole alghe brillanti di smeraldo a perdita d’occhio. Il mare in fondo era un mare più mare del mare stesso.
Passeggiai con me ed il mio the. Sotto un sole elettrizzante, secco, vivace.
Passeggiai per un quarto circa, e ritornammo alle auto.
Mentre salivo sulla mia, Francesco mi guardò, fece un cenno con la testa, ricambai, un sorriso che non era un sorriso ma un dialogo di ore e giorni, salimmo in auto, come se già sapessimo tutto.
Lui conosce il mio mal d’Africa, se così possiamo chiamarlo.
Lo conosce da quando partì per il Kenya circa 3 anni fa e ritornai rigirato come un calzetto, come dicono dalle mie parti.
Dico mal d’Africa, ma è il concetto di dentro-e-fuori che accennavo prima, all’inizio di questo scritto.
Già, dentro e fuori.
Chi è dentro, chi è fuori, dov’è il dentro e dove il fuori.
Domande che continuamente mi avvolgono di pensieri come sciarpe al collo sotto il sole ogni volta che scendo al sud del mondo.
Il giorno che mi dissero, partiamo per il safari, andiamo a vedere gli animali, ero eccitatissimo. Ma non pienamente cosciente di cosa potesse significare in seguito questo.
Mi accorsi poi con i giorni, che volesse semplicemente dire, andare DENTRO.
Dentro cosa?
Dentro e basta. Questo era quello che sentivo. Sentivo la pelle. Gli odori. I colori. Lo spazio. La grandezza di tutto. DENTRO succede tutto secondo regole precise e non scritte da milioni di anni.
Io ero a casa loro. O nella mia vera casa. Ancora non lo so. Tra gli animali. Le piante. I cicli naturali. In un mondo esistente e non costruito.
E la senti forte la sensazione del DENTRO li. Di distanza. Di presenza. Di verità. Di non essere più il centro di nulla. Ma di essere e basta. E muoversi. E fare.
Li tutto si muove e tu non puoi far nulla per arrestarlo. O non dovresti far nulla per contaminarlo. Perché è già tutto così perfetto.
È così e basta, si regge da solo.
Sei DENTRO, DENTRO davvero.
E quel giorno nel deserto ero DENTRO, si, proprio così.
E senti tutto forte.
Il silenzio è assordante di notte.
Ti brucia.
Sotto il cielo le stelle gelide ti osservano.
L'alba ti gela il sangue.
Da qualche parte qualcuno o qualcosa sa che ci sei.
Ricordo perfettamente il primo gennaio, all’incirca verso le 12.30 del mattino, quando ci trovammo seduti su un marciapiede alle porte di DOUZ, e vicino a noi motorini e dromedari si intrecciavano tra asfalto e sabbia, il cielo non toccava più ovunque con la terra ma scivolava sopra i tetti alla ricerca di un punto di contatto.
Eravamo seduti al confine.
Al confine di un DENTRO e di un FUORI che ti mangia la manifestazione oggettiva dei sensi e ti sputa addosso tutto il sentire confuso di due mondi.
L’Africa.
Si sente e basta.
Quando sei li la senti, la senti forte davvero.
E sei ovunque ed in nessun posto.
DENTRO-e-FUORI.
Sono contento di esser stato DENTRO-e-FUORI con loro.
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