26/01/10

2/3___VIAGGIO. Manifestazione, compimento, vita. Architettura sensoriale.



L’africa è terra dei sensi.

È esistenza non costruita.

L’africa si assaggia senza saperlo. Senza chiedere. L’africa è nella bocca ancor prima di rendersene conto. E la senti scivolare dentro.

Quando dal ponte numero 8, durante le manovre di attracco della Zeus Palace, si vedevano librare lontani sopra i tetti i primi minareti, aguzzi e verticali, il vento sapeva gia di terra, sabbia, profondo.

Chiusi gli occhi e annusai profondamente. Conoscevo gia tutto. Senza sapere come. Ma conoscevo gia tutto.

Scivolavano sulle labbra sapori primordiali.

Intensi.

Vibranti.

Coinvolgenti.

Si palesò pressappoco così il nostro arrivo a Tunisi.

Sbarcammo con addosso un forte dinamismo da occidentali curiosi che gradualmente digradò verso un “AFRICIZZAZIONE” di tempi, modi e termini che ci rapì totalmente.

Fu sicuramente la vista del mare dalla spiaggia della Goulette, che si pronunciava lento e misterioso, o magari il sorseggiare la prima bevanda locale, the verde con foglie di menta, o lo scoprire una moneta dai disegni sconosciuti e scambiarla senza conoscerne il vero valore rimanendo stupiti, o magari il ritrovarsi della gente agli angoli delle vie in capannelli di 4 o 5 persone. Il loro parlare. Il loro raccontarsi. Il prendersi il tempo del dialogo.

Guardarci in faccia ci metteva nella condizione di trovarci e perderci allo stesso momento cercando punti di riferimento intorno che non esistevano realmente ma si sentivano nello stomaco.

Il viaggio è movimento, direzione. Il nostro aveva degli obiettivi fisici, topografici, da voler rispettare, e non da subire, arrivare a sud e spingersi nel deserto.

Il viaggio è occhi sgranati nell’andare, naso sul finestrino dell’auto, dita che toccano le cose.

Multisensoriale.

Il percorso verso il sud scivolò lungo ed inesorabile, toccando luoghi e genti che t’aspetti simile ovunque, ma che ritrovi diversa ogni volta.

Non è strano.

Ma mi stupì comunque.

La cosa che mi affascinò durante il trasferimento da Tunisi verso Douz furono le improvvise apparizioni di piccoli villaggi lungo la strada.

In mano cartine stradali spoglie e secche che non mostravano microinsediamenti urbani dove sopravvivevano invece immobili e travolgenti tradizioni e costumi.

Vieni travolto in un vortice contraddittorio dove ti senti contemporaneamente innovatore rivoluzionario e contaminatore territoriale.

La semplicità dei piccoli gesti, delle piccole cose, delle piccole parole, ti lascia senza fiato.

E la tua grandezza occidentale diventa minuscola, impalpabile, povera.

Cosa manca? Manca tutto rispondi.

Ma giostrando la testa intorno non manca proprio niente.

C’è tutto quello che basta.

E c’è più forte.

Chi ti da come proprio indirizzo la fermata di un autobus, chi quello di una libreria, dove spedire le foto appena scattate.

Chi ti dice chiamami se hai bisogno e ti lascia il numero di telefono, e tu non sai nemmeno chi sia, ma ti ha appena sorriso. Chi ti serve a tavola come un re nonostante ti trovi in un salone di 200 mq con due neon e le sedie ed i tavoli sono tutti diversi.

Perché tu sei sempre il benvenuto.

Perché ti fanno sentire una persona.

Il sud lo raggiungemmo di sera. E senti che è sud dal crocchiare della sabbia tra i denti, dalle stelle, dai pochi lampioni, dalle luci basse insomma, luci basse ovunque. Da un calore strano nel fresco pungente serale, che senti arrivare dalle vie, scivolare sui muri, e prenderti gli occhi. Ma la verità è che quel calore, me ne rendo conto solo ora, proveniva dal buio, dalla notte del deserto.

Odorava di silenzio.

Di gelsomino.

Di luna.

Il sud ti sconvolge nell’accoglienza che ti riservano nelle case, nella sabbia sottile come farina o dura come asfalto, nel mercato degli animali all’alba dei palmeti, negli occhi dei bambini che ti cercano mentre corrono, che te li senti dentro quando fissano quella dannata macchina fotografica avida di immagini.

Non voglio parlare del deserto dove campeggiammo la notte dell’ultimo dell’anno.

Non lo voglio fare, perché so che non riuscirei a farlo come desidero, così come ho sentito.

Vorrei ricordare solo una frase che sopraggiunse nella notte ovattata: “Guardatevi intorno, sembra un presepio”.

Ci fece sorridere. Di gusto. Molto.

E ci concesse, prima di addormentarci sotto una luna dentifricio che sbiancava ogni cosa, di dare un ultimo sguardo intorno, da soli, e capire quanta grandezza ci circondasse, quanta magia ed elettricità fosse presente nello spazio circostante.

E fosse tutta per noi.

Li, unicamente per mangiarti ed essere mangiata.

Nessun commento:

Posta un commento